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JAY MIRIAM - These eyes have walls

Opening February 15 2022





Dove vai quando sei sola/o? Cosa fai quando sei in grado di essere te stessa/o?

La Galleria Richter è lieta di presentare martedì 15 febbraio la prima mostra personale di Jay Miriam in


Italia. Dopo la bi-personale del 2020 con Katerina Janeckova e la mostra collettiva “Between my flesh and world's fingers” da poco conclusa, l’artista americana torna a Roma, ad abitare gli spazi della galleria Richter con These eyes have walls accompagnata dal testo critico di Giuseppe Armogida.


In questa nuova serie di lavori, dipinti a olio su larga scala, Jay Miriam mette in questione il nostro sguardo “murato”, costringendoci a immaginare – per ognuna delle figure femminili ritratte – oggetti, situazioni, personaggi, ambienti, relazioni e regole, che precedono o che, comunque, rimangono esterni all’opera.

Da sempre Miriam esamina ciò che sta nell'ordinario, affascinata dai momenti apparentemente intimi e silenziosi della vita: nasciamo in un corpo, in un tempo, in un luogo, ma quando chiudiamo gli occhi, come ci vediamo?


La pratica contemplativa di Miriam prevede “la pittura a memoria” o l'immaginazione di nuovi mondi partendo da zero e, attraverso la creazione di segni audaci e pennellate sciolte, l’artista crea storie completamente proprie, che spesso richiedono mesi o persino un anno per essere completate. Classe 1990 è nota per i suoi ritratti di nudi femminili, i soggetti di Miriam emanano un giocoso senso di mistero. Spesso sono presenti nei suoi dipinti movimenti che sarebbero fisicamente impossibili nel mondo reale, che si tratti di un braccio allungato o, in altri casi, della posizione delle gambe, tuttavia nella composizione l’artista gioca con il movimento dell'occhio per convincere lo spettatore che questi momenti sembrino autentici. La percezione dello spettatore è importante per l'intero dipinto quanto il dipinto stesso.


Nata a New York City (1990) e cresciuta a Brooklyn, Jay Miriam ha conseguito un BFA presso la Carnegie Mellon University e un MFA presso la New York Academy of Art.

L’artista ha in programma mostre personali da Galleria Richter (Roma, 2022) and Gruin Gallery (Los Angeles, 2022).

Le precedenti mostre personali principali includono: Fantasies in a Waking State (Ornis A. Gallery, 2017, Amsterdam); Catch the Heavenly Bodies (Half Gallery, 2016, New York, NY); Blue Paintings of Women (Ornis A. Gallery, 2014, Amsterdam), and JM (Cudowne Lata, 2011, Krakow, Poland).


Testo di Giuseppe Armogida


Etica dell’ambiguità

di Giuseppe Armogida


Moments of self. Così Jay Miriam definisce i lavori presentati in questa sua nuova mostra alla Galleria Richter. Momenti di sé, momenti con sé, momenti in cui le figure femminili ritratte possono conoscere sé stesse. Momenti in cui possono “vedersi”, possono penetrare in sé stesse, alla ricerca di ciò che veramente sono. Momenti in cui si rivela loro il proprio daímon – l’autentico Sé, ciò che custodiscono in interiore – e possono godere del suo spettacolo. E non è forse ebbrezza questa?

Ma come possono mettere a nudo il loro cuore e conoscere sé stesse, senza distaccarsi da tutto ciò che confusamente le riflette, senza disciogliersi dalle apparenze, dai pre-giudizi, senza intraprendere risolutamente la via della “solitudine”, dell’“intimità”? Non esiste cosa più grande al mondo – scriveva Montaigne – che saper essere per sé, riservarsi un retrobottega tutto nostro, del tutto indipendente, nel quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine. Là noi dobbiamo trattenerci abitualmente con noi stessi; lì dobbiamo discorrere e ridere come se fossimo senza nessun altro.

E, in effetti, gli ambienti in cui Miriam “inquadra” le sue scene sono come dei sistemi chiusi, che comprendono personaggi e accessori (spesso anche bizzarri), e che sembrano stabilire un confine invalicabile, all’interno del quale il mondo esterno sembra essere stato escluso. E, tuttavia, Miriam sa che ogni personaggio raffigurato rimane indistricabile dalla “tragedia” del mondo. Di questa siamo intessuti come di nervi e di ossa. Non ci abbandona mai. Nel nostro ambiente privato – scriveva sempre Montaigne – ci portiamo appresso le nostre catene, volgiamo gli occhi verso quello che abbiamo lasciato, ne abbiamo piena l’immaginazione. Insomma, non basta allontanarsi dalla gente, non basta cambiar luogo: bisognerebbe sequestrarsi e isolarsi da sé stessi. Ma chi è capace di far ciò?

Ecco che, allora, ogni quadro di Miriam sembra eccedere i suoi limiti e rinviare a una sorta di “fuori campo”. Ogni “inquadratura” non è statica, ma cresce al suo interno, proiettando le proprie linee di fuga verso l’esterno, verso un “fuori” che è situato al di là dei confini del quadro. Sembra, cioè, che l’azione rappresentata si prolunghi in uno spazio più vasto con il quale comunica. Uno spazio eterogeneo rispetto a quello del quadro, uno spazio vuoto, negativo, che non si vede, ma che è presente, “insiste” e si percepisce. Un Altrove, un fuori dell’immagine, che, pur scartato dalla zona di visibilità del quadro, la fonda e la rende possibile.

E mi pare che questa dialettica tra “campo” e “fuori campo” caratterizzi tutta questa serie di lavori in mostra. Jay Miriam mette in questione il nostro sguardo “murato” – che cerca disperatamente di connotare, salvaguardare, proteggere, contenere e ripristinare ciò che è a noi familiare –, costringendoci a immaginare – per ognuna delle figure femminili ritratte – oggetti, situazioni, personaggi, ambienti, relazioni e regole, che precedono o che, comunque, rimangono esterni all’opera. Ad esempio, il tipo di lavoro che queste donne svolgono quotidianamente, dal quale forse non potranno liberarsi, ma che certamente non potrà mai dire nulla su chi esse sono realmente. Oppure, in generale, i ruoli che esse ricoprono nella società e dai quali è impossibile sfuggire. Come è impossibile sfuggire al legame ineluttabile che ognuno di esse ha con il proprio passato e con le proprie origini.

Jay Miriam, in queste opere, non offre risposte sicure. These eyes have walls è, dunque, una mostra costruita su un’ambivalenza inclusivo-conflittuale, sul rimbalzo continuo tra spazio interno e spazio esterno, interiorità e riconoscimento sociale, spessore biografico dei personaggi e trappola dei ruoli, realtà quotidiana ed estraniamento da essa. Un’ambiguità che impedisce che ogni cosa torni al proprio posto e ci costringe ad aguzzare il nostro sguardo. Sempre, di nuovo.


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Where do you go when you are alone? What do you do when you are able to be yourself?


Galleria Richter is pleased to present Jay Miriam's first solo exhibition in Italy on Tuesday 15 February. After the 2020 bi-solo exhibition with Katerina Janeckova and the recently concluded group show "Between my flesh and world's fingers", the American artist returns to Rome, to inhabit the spaces of the Richter gallery with These eyes have walls accompanied by the critical text by Giuseppe Armogida.


In this new series of works, large-scale oil paintings, Jay Miriam questions our "walled" gaze, forcing us to imagine - for each of the female figures portrayed - objects, situations, characters, environments, relationships and rules, which precede or, in any case, remain external to the work.

Miriam has always examined what is in the ordinary, fascinated by the apparently intimate and silent moments of life: we are born in a body, in a time, in a place, but when we close our eyes, how do we see each other?


Miriam's contemplative practice involves "painting by heart" or imagining new worlds from scratch and, through the creation of bold signs and loose brushstrokes, the artist creates entirely her own stories, which often take months or even a year. to be completed. Born in 1990, she is known for her portraits of female nudes, Miriam's subjects exude a playful sense of mystery. Often there are movements in his paintings that would be physically impossible in the real world, be it an outstretched arm or, in other cases, the position of the legs, however in the composition the artist plays with the movement of the eye to convince the viewer that these moments feel authentic. The viewer's perception is as important to the entire painting as the painting itself.

Born in New York City and raised in Brooklyn, Miriam earned a BFA from Carnegie Mellon University and an MFA from the New York Academy of Art.

Jay Miriam paints portraits of ordinary people who do and perform everyday actions and things.

Characters brushing their teeth, chatting or waiting for an appointment at the bar, are all particularly interesting actions for the artist. Actions we do and do without realizing it are so taken up by the daily routine.

Jay Miriam paints from memory, he does not use photography, computers or projectors in his painting process. He extracts from a reinterpreted memory or story.

Creating a poetic world to represent a specific emotion, instance or relationship. Each painting often takes months and up to a year to complete.


Main solo exhibitions:

Fantasies in a Waking State, Ornis A. Gallery, Amsterdam (2017); Catch the Heavenly Bodies, Half Gallery, New York, (2016); Blue Paintings of Women, Ornis A. Gallery, Amsterdam (2014); Youth and Beauty Parade, Ornis A. Gallery, Amsterdam (2013), and JM, Cudowne Lata, Krakow, Poland (2011)


Text by Giuseppe Armogida


Ethics of ambiguity

by Giuseppe Armogida


Moments of self. This is how Jay Miriam defines the artworks that she is presenting in her new exhibition at Galleria Richter. Moments of self, moments with oneself, moments in which the portrayed feminine figures can get to know themselves. Moments in which they can “see themselves”, penetrate themselves, searching for what they truly are. Those are moments that reveal them their own daímon – their authentic Self, what they keep in interiore – and they can enjoy its performance. Isn’t this elation?

Though, how can they unveil their heart and get to know themselves without detaching from anything that chaotically reflects them, without giving up appearances, prejudice, without resolutely undertaking the way of “loneliness” and “intimacy”? There is no bigger thing in the world – as Montaigne once wrote – than knowing how to be self-sufficient, saving an utterly independent utility room for one’s own, where to establish one’s true freedom, one’s main retreat and one’s loneliness. One ought to stay regularly there with their own self; one ought to converse and laugh there as if there was no one else.

Actually, the settings in which Miriam “frames” her scenes are similar to closed systems, enclosing characters and (often bizarre) accessories; they seem to establish an insurmountable border, apparently excluding the exterior world. Nevertheless, Miriam knows that every portrayed character is inextricably tied to the world “tragedy”. The latter is part of our selves as if it was our nerves and bones. It never forsakes us. To our private environment – as Montaigne also wrote – we bring our chains, turn our eyes towards what we have abandoned, our imagination is filled with that. Hence, walking away from people is not enough, neither is it changing place: one should abduct themselves and isolate from themselves. Who is able to do that?

There it is, every single one of Miriam’s paintings seems to overcome its borders and recall a kind of “offscreen”. Every “framing” is not static, it rather grows within itself, projecting its vanishing points externally, towards an “outside” that is placed beyond the painting’s borders. This means that it seems that the represented action extends to a wider space which it communicates with. A heterogeneous space, an empty, negative, invisible one, that is present, “insists”, and is perceived. An Elsewhere, an offside image, that in spite of being discarded from the painting’s visible area, lays its foundations and makes it possible.

It seems to me that this dialectics between “scene” and “offscreen” characterizes the whole exhibition. Jay Miriam questions our “walled-up” gaze – desperately trying to connotate, safeguard, contain, and reactivate what appears familiar to our eyes –, by forcing us to imagine – for each of the portrayed feminine figures– items, situations, characters, settings, relationships, and rules that either precede or stay out of the artwork. For example, the kind of work that those women daily do, which they will probably never be released from, but which will never be able to say anything about who they truly are. Or their rules within the society, from which it is impossible to escape. Just as it is impossible to escape from the unavoidable bond that each of them has got with her own past and origins.

Jay Miriam, in these artworks, does not provide definite answers. These eyes have walls is, therefore, an exhibition built on an inclusive-conflictive ambiguity, on the constant rebound between indoor and outdoor spaces, intimacy and social acknowledgement, characters’ biographic depth and role traps, daily life and alienation from it. It is an ambiguity that prevents every thing from going back to its place and forces us to sharpen our sight. Always, again.



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