COLIN BRANT - Tibbar Tibbar
Opening December 2 from 11-7pm
Sabato 2 dicembre dalle 11:00 alle 19:00 la galleria Richter Fine Art inaugura la personale di Colin Brant, dal titoloTibbar Tibbar, in mostra da lunedì 4 dicembre al 12 gennaio 2024.
Tibbar Tibbar, che significa letteralmente coniglio coniglio scritto al contrario, è un’esclamazione utilizzata in alcune zone degli Stati Uniti per augurare “Buona Fortuna”. Le persone esclamano "coniglio coniglio" il primo giorno di ogni mese per augurare buona fortuna. Qualora lo dimenticassero, esclamano "tibbar tibbar" alla fine del mese per compensare. L’artista intitola così la sua personale a Roma negli spazi della galleria in cui vengono esposti dipinti ad olio di dimensioni variabili: da ridotte e maneggevoli fino alla larghezza delle proprie braccia in estensione.
Le opere esposte sono i lavori che l’artista ha realizzato negli ultimi due anni. Partendo da sottili strati di colore, Brant lascia che il pigmento si depositi nelle scanalature della tela e metta in evidenza la trama del tessuto. Le stratificazioni di colore create richiamano antichi metodi di stampa; quelli delle cartoline in lino e delle immagini stereoscopiche colorate del XIX secolo, che sono utilizzate come immagini di riferimento. Sovrapponendo tonalità di rosa polveroso e di violetto sfumato con l’arancio, si suggeriscono immagini di cose viste attraverso una lente granulosa, distante nello spazio e nel tempo. Segni di vernice più spessa, sovrapposti a questi sottili strati di colore, si fondono per creare delle immagini. Brant si ispira ad artisti che usano la rappresentazione come punto di partenza per far vagare l’immaginazione, come il post-impressionista Pierre Bonnard, i primi artisti autodidatti americani e i paesaggisti cinesi.
Sebbene la varietà dei suoi soggetti includa animali, minerali e fenomeni celesti, il paesaggio è un motivo ricorrente. Un sito delle Montagne Rocciose canadesi è stato oggetto di una serie di dipinti. Utilizzando una vasta gamma di cartoline d’epoca che mostrano la zona da angolazioni leggermente diverse, in differenti situazioni di luce e colore, i dipinti diventano uno studio sulla mutevolezza e la soggettività dello spazio. Indipendentemente dal soggetto, gli elementi dipinti sono costantemente in evoluzione o passano da uno stato all’altro. Le montagne si fratturano e si dissolvono nella luce, gli animali appaiono e scompaiono, i riflessi capovolgono un paesaggio: tutto è in continua trasformazione e oscilla tra il riconoscibile e il fantastico.
“Molti, imbattendosi nell’opera di Brant, inizialmente lo identificherebbero come un paesaggista. – scrive Bob Nickas nel suo testo – Lui non è d’accordo, pur non essendo contrario all’idea, ma ribadisce che cerca qualcos’altro, qualcosa che lui stesso ha difficoltà a spiegare. Brant ha dipinto numerose scene di fiordi, tutte sorprendenti, sebbene non ne abbia mai visto uno di persona. Non è necessario recarsi in un luogo per dipingerlo. Si può visitare quel posto con la mente”.
È raro che soggetti umani appaiano nei dipinti di Brant. Che il soggetto sia il plancton o un vasto fiordo, il dipinto diventa un’esplorazione meditativa su come l’artista vede e comprende il mondo naturale.
Colin Brant è stato il destinatario della John Simon Guggenheim Memorial Fellowship nel 2022 e ha ricevuto sovvenzioni dalla New York Foundation for the Arts e dalla Pollock-Krasner Foundation. Le sue mostre personali includono la Jeff Bailey Gallery, la Adam Baumgold Gallery e la Beth Urdang Gallery, fra le mostre collettive si ricordano la Steven Zevitas Gallery, Lucien Terras, la Geoffrey Young Gallery e Platform Space. Ha frequentato l’Università della California a Santa Cruz e l’Università di Iowa, attualmente vive e lavora fra North Bennington, VT, e Brooklyn, NY.
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On Saturday 2 December from 11:00 till 7:00pm, Richter gallery presents the solo exhibition by Colin Brant, entitled Tibbar Tibbar.
The title “Tibbar Tibbar” (rabbit rabbit backwards, a good luck phrase used at the end of the year in certain parts of the United States) has a double mirror structure that Brant uses in his paintings. Mountains are reflected in water and become a new fantastic vision. Seascapes fracture and dissolve in light, and the paintings become a study in mutability and subjectivity. A simple word, repeated backwards, has the power to seem new and offer magical powers.
The artist will be showing two bodies of work, one referencing coastal Northern California where the artist grew up, and the other of fjords and scenic views of Norway. Both bodies of work reflect Brant’s interest in the metaphoric possibilities of wild places and our place in wildness.
The paintings begin with thin washes of color, the pigment deposits in the grooves of the weave and emphasizes the texture of the fabric. Using reference materials such as linen postcards and 19th century colorized stereoscope images, the layered colors are reminiscent of these old printing methods. Overlapping tones of violet and orange suggest things seen through grainy atmospheric distance as well as across the distance of time and memory. Scumbled marks of thicker paint over these thinner layers coalesce into images. Brant is inspired by artists who use representation as a starting point for the imagination to wander, including Post Impressionists like Pierre Bonnard, early American self-taught artists, and Chinese landscape painters.
“Most encountering Brant’s work initially would identify him as a landscape painter. – writes Bob Nickas in his essay – He disagrees, not being contrarian, only to insist he’s after something else, something he himself finds hard to explain. Brant painted numerous scenes of fjords, all of them amazing, although he never saw one in person. You don’t have to go to a place to paint it. You go to a place in your mind”.
It is rare for human subjects to appear in Brant’s paintings. Whether the subject is plankton or a vast fjord, the painting becomes a meditative exploration of how he sees and understands the natural world.
Colin Brant was the recipient of the John Simon Guggenheim Memorial Fellowship in 2022 and has received grants from New York Foundation for the Arts and the Pollock-Krasner Foundation. Solo exhibitions include Jeff Bailey Gallery, Adam Baumgold Gallery and Beth Urdang Gallery and numerous group exhibitions include Steven Zevitas Gallery, Lucien Terras, Geoffrey Young Gallery and Platform Space. He attended The University of California Santa Cruz and The University of Iowa and currently lives and works between North Bennington, VT, and Brooklyn, NY.
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Colin Brant: Grandezza naturale
Di Bob Nickas
Ogni opera d’arte, comprese quelle completamente astratte, provengono dalla natura e ogni opera d’arte è a grandezza naturale. Il soggetto può essere una sequoia, che nella foresta può raggiungere i 110 metri di altezza. Dipinta, fotografata o disegnata, l’immagine di un albero può essere solo una questione di centimetri, eppure è a grandezza naturale per il relativo supporto, che sia un foglio di carta, una tela o una tavola, o una vecchia cartolina. Inoltre, risulta a grandezza naturale all’occhio e alla mano dell’artista, così come all’occhio dello spettatore.
Un dipinto di Godzilla di Colin Brant risulta in scala in maniera estremamente intima, lungi dal modo in cui il mostro incombe nell’immaginazione o su uno schermo cinematografico. Godzilla e il dipinto hanno qualcosa in comune. Sono entrambi finzioni. Il dipinto del mostro a opera di Brant è, in effetti, a grandezza naturale. Si potrebbe pensare che sia il ritratto di un giocattolo. Ci si sbaglierebbe. L’artista ha visto l’immagine sulla copertina di una rivista in un supermercato. Il quadro si basa su una riproduzione fotografica, alla stregua di molto del Citazionismo degli anni Ottanta.
Colin Brant non è un citazionista. Ha le sue fonti, come è normale che sia, fonti non sempre provenienti dalla natura come vorrebbe l’Impressionismo. Per quanto alcune immagini suggeriscano il contrario, non è un pittore di dipinti en-plein-air. Sebbene in qualche rara occasione possa averlo lasciato per dipingere, lavora principalmente in studio. E non importa come ci appaia la sua immagine, il suo soggetto è sempre e inevitabilmente la pittura. E perché ha dipinto Godzilla? Quel giorno, in fila alla cassa, si era chiesto: “Posso dipingere questo?”
Molti, imbattendosi nell’opera di Brant, inizialmente lo identificherebbero come un paesaggista. Lui non è d’accordo, pur non essendo contrario all’idea, ma ribadisce che cerca qualcos’altro, qualcosa che lui stesso ha difficoltà a spiegare. Ha affermato che i suoi dipinti non sono “ritratti di luoghi”, pur facendo riferimento a posti a lui noti, in cui è nato e vissuto, o ad altri che non ha mai visitato.
Non è necessario recarsi in un luogo per dipingerlo. Si può visitare quel posto con la mente. Forse quei dipinti di posti in cui non è mai stato sono apparizioni. Può verificarsi un’inversione di polarità; il luogo viene da noi. Il luogo dove si reca Brant è la pittura. La sua difficoltà di articolazione della propria narrativa - e non si tratta né di riluttanza, né di evasione - è in realtà utile per concentrarsi su ciò che fa. In parole povere, ciò che in qualità di spettatori identifichiamo come paesaggi, altro non sono che il suo atto di esplorare il terreno, la topografia e i contorni della pittura, i ricordi e le immagini, il modo in cui si intrecciano, nonché il modo in cui ci presenta l’apparenza del mondo visto dall’occhio della sua mente, inclusi i luoghi che ha abitato, la creazione di un’immagine. Anche una rapida analisi delle sue fonti mostra che rende queste immagini più vive, vibranti, magiche, a tratti creando spaesamento. La stanza sotterranea, psichedelica, cavernosa che è Freedley Quarry #2, del 2022, ad esempio, si potrebbe anche descrivere come l’ingresso della casa degli specchi di uno speleologo. In questo Brant ha qualcosa in comune con gli scrittori, il cui principale compito è dare vita a una storia. E qual è quello di un pittore? Per entrambi, nel raccontare un evento o un luogo reale, l’imperativo è renderlo più interessante, elevarne l’esperienza per lettori e spettatori. A tal fine, inevitabilmente realtà e finzione si intrecciano.
Quando Brant ci mostra luoghi dove non siamo mai stati, dove non è stato nemmeno lui, ci porta lì, nel mondo dipinto. È esso stesso una mappa che gli e ci permette squisitamente di perderci. Si tratta di un artista che dipinge quasi tutti i giorni e produce spesso diverse varianti di un’immagine. Dipingere, idealmente, è un atto ricorrente, senza una destinazione finale. Sebbene l’atto di creazione di un’immagine possa essere ritenuto ellittico, l’artista e i suoi seguaci non si muovono mai da A a B e ritorno. Vi è sempre qualcos’altro da scoprire. La pittrice realista Lois Dodd, ora novantaseienne, è tornata sugli stessi pochi luoghi e soggetti più e più volte nel corso degli ultimi settant’anni - spostandosi tra il Maine e il Delaware Water Gap, guardando fuori dalla sua finestra dell’East Village— e continua a suscitare interesse. Forse la sua immagine di una giornata nevosa d’inverno non riguarda il paesaggio. Forse riguarda una sensazione di solitudine diversa da quella di isolamento, senza dubbio. Dipingere, di certo, è un’attività solitaria. Può costituire una forma di meditazione, tanto per l’artista, quanto per lo spettatore. La superficie di un dipinto non è dissimile dalla superficie di uno specchio d’acqua. Vi è il riverbero di cielo e luce dall’alto, il riflesso periferico, un interrogativo su cosa ci sia al di sotto. Produrre un dipinto e osservare un dipinto condividono lo stesso senso di stupore e curiosità. Consideriamo l’opera di Colin Brant Aquarium, del 2023. Osservato da vicino, un acquario è un mondo limitato in cui immergiamo le nostre teste. Lo stesso vale, o può valere, per un dipinto. Ogni dipinto, a prescindere dall’immagine, è una sorta di acquario. Con Plankton, del 2022, Minerals, del 2021, e Flower Stand, del 2022, Brant dispone ogni cosa davanti ai nostri occhi affinché possiamo esaminarla, come ha fatto lui, anche con immagini non direttamente basate sull’esposizione.
In certi dipinti Brant suggerisce che il punto di vista sia quello dello spettatore, una figura non visibile ma appartenente alla scena. Grotto, del 2023, posiziona chiaramente lo spettatore all’interno del dipinto: guardando fuori dall’interno, l’alto portale ad arco della grotta che incornicia il paesaggio offre un’immagine silenziosa e magica, mistica. Analogamente, Houda Beach, del 2022, ambientato nella California settentrionale, nei pressi di dove è cresciuto l’artista, è incorniciata dalla natura. In primo piano, a sinistra e a destra, fino al punto centrale della tela, sporgono erba e rocce; su ambo i lati e lungo il lato superiore, rami con sottili e delicate foglie incorniciano la baia e il mare sul retro. Lo spettatore sta lì, dove l’artista stava al momento dello scatto della foto sorgente. Malgrado il formato verticale, muove l’occhio in un percorso circolare continuo, seguendo i segni e le serpentine sui quattro lati. Ciò espande il dolce scorcio della vista centrale, proprio come succederebbe se raggiungessimo il bordo della scogliera che si affaccia sulla baia, ripagati dalla sublime visuale. Più che paesaggi, sono immagini di esperienze, comprese quelle del pittore all’opera. Il dipinto di Brant Moonstone, del 2022, che è una spiaggia vicina a Houda, verso sera, potrebbe essere stato opera di Munch che ritrae l’inizio dell’aurora boreale, o del primo Mondrian nel suo mistico periodo rivelatore. La natura, Mondrian lo sapeva bene, costituisce un regno spirituale. Per Brant, “essere lì” può anche abbracciare la distanza e la distanza rappresentata in uno scorcio, come quando trasforma la fotografia di un diorama da lui scattata nell’American Museum of Natural History in una visione ultraterrena di una primitiva, esotica giungla: Congo Forest Diorama AMNH, del 2022. Con la sua immagine assolutamente animata, non ci troviamo più davanti a un mondo chiuso, una simulazione museale, tra Central Park West e la Settantanovesima a New York. Osservando la foto sorgente, vediamo in modo più completo come abbia trasformato un’immagine ordinaria in qualcosa di assolutamente straordinario. I diorami museali hanno lo scopo di mostrare luoghi o punti lontanissimi nel tempo in maniera verosimile o reale. La riproduzione di Brant sembra molto più veritiera per la visione amplificata che offre. Posti davanti alla grandezza e alla stranezza della natura, al sublime o al ridicolmente sublime, molti di noi reagiscono proferendo un’unica parola, che esprime la nostra impressione: Fantastico!
Brant ha dipinto numerose scene di fiordi, tutte sorprendenti, sebbene non ne abbia mai visto uno di persona. L’affaccio su un magnifico fiordo, è lì che risiede il sublime. Ma vi è di più: ha un interesse persistente per la creazione stessa della Terra, per le più sorprendenti formazioni scultoree del pianeta. Sa che la migliore scultrice è la natura stessa e spesso ricorre a termini cosmici e microcosmici per spiegare come sia arrivata la vita sulla Terra. La sua mostra del 2023, Dirty Snowball, prende in prestito il titolo dalla teoria secondo la quale “i blocchi di costruzione di tutte le forme di vita (nonché della maggior parte delle acque) sono giunti sulla Terra sotto forma di gigantesche palle di ghiaccio, roccia e polvere (comete), entrate in collisione con il nostro pianeta eoni fa. In quelle paludi primordiali, gli amminoacidi si sono uniti per costituire creature semplici, che si sono trasformate in creature più complesse…” Nei dipinti delle montagne -che appaiono come ammassi di geodi- Brant sembra volerci mostrare cosa si trova all’interno della pietra, come si è formata, strato dopo strato. Ha dipinto una serie di scene del Lago Louise, nel Banff National Park di Alberta, non solo per la bellezza e il potenziale di improvvisazione pittorica, ma perché si tratta di un lago morenico. In quanto tale rimanda, così come i fiordi, a un’era glaciale, nello specifico l’ultima della Terra. Le acque del lago, come rappresentate in Lake Louise, del 2023, sono di un turchese brillante a causa di una polvere di roccia che riflette la luce dall’alto. Anche il fatto che Brant lasci visibile l’intreccio della tela e dia la sensazione di un pigmento a tratti granulare, con un colore strofinato, suggerisce l’attività sedimentaria. In termini cromatici, i verdi possono essere descritti come derivanti dalla clorofilla, il composto naturale delle piante verdi, che conferisce loro la colorazione e consente di assorbire l’energia solare per mezzo della fotosintesi, dalla quale generano ossigeno. Si può cadere nella tentazione di pensare che l’opera di Brant sia un’intrigante pittura-sintesi, che nel processo dell’artista implica la fotografia. Lungi dall’essere resa obsoleta dall’invenzione del mezzo, la pittura, fin dagli anni Venti dell’Ottocento, ha sottolineato i limiti della macchina fotografica, primo tra tutti l’immaginazione. Oggi chiunque può fotografare immagini. In compenso, pochissimi sanno dipingerne.
È raro che soggetti umani appaiano nei dipinti di Brant. Vi sono, invece, segni di costruzioni —un ponte, una casa, un hotel— con i quali potrebbe voler suggerire un mondo non guastato dall’intervento umano, un ambiente idilliaco, specialmente visto che abitiamo un pianeta sempre più a rischio, a causa nostra, di cataclismi. Quando Brant sceglie di includere figure umane, solitamente, come ha ammesso, le nasconde. In Mt Sir Donald, del 2022, una figura è seduta su una roccia sommersa lungo la linea di fondo centrale della tela. La fonte era una vecchia immagine stereoscopica (che rappresenta la divisione sinistra/destra che Brant ha mantenuto visibile, a eccezione del fatto che non biseca il cielo), originariamente in seppia, ma che nel suo dipinto acquisisce tonalità forti di colore. La tecnica fotografica del XIX secolo, notevole in quei tempi così come oggi, si avvicina all’effetto tridimensionale. Nella pittura, tuttavia, Brant non ha necessità di suggerire l’illusione della profondità. La nostra percezione della profondità di questa immagine, una tela di 85 cm per 115 cm (grandezza naturale), è relativa allo spazio fittizio della pittura, che arriviamo ad abitare nell’atto dell’osservazione. Qui, afferriamo il modo in cui l’arte misura la nostra vicinanza per gradi. La figura in questo dipinto è piccola in relazione alla vastità della natura e dell’Universo, come lo siamo noi. La distanza di Brant dal mondo e dal mondo delle immagini non è misurabile in metri e centimetri. La distanza consente a lui di dipingere quelle immagini e a noi di avvicinarci a ciò che fa. Anima e amplifica la natura. “Non mi interessano una montagna o un paesaggio, Godzilla o gli acquari”, afferma, “ma le energie della Terra, le cose brillanti, le cose reali, primordiali e vive”. Ribadisce più e più volte: “Vediamo noi stessi nelle cose che osserviamo”.
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Colin Brant: Life-size
By Bob Nickas
Every work of art, even those wholly abstract, are from life, and every work of art is life-size. The subject may be a redwood tree, which in the forest can rise to 380 feet high. Painted, photographed or drawn, the image of the tree may only be a matter of inches, and yet it is life-size to its support, to a sheet of paper, a canvas or a board, to an old postcard. Moreover it is life-size to the eye and the hand of the artist, as well as to the eye of the viewer.
A painting of Godzilla by Colin Brant is very intimately scaled, far from how the monster looms in the imagination or on a movie screen. Godzilla and painting have something in common. Both are fictions. Brant’s painting of the monster is, in fact, life-size. You may guess that it was painted from a toy. You would be wrong. The artist saw the image on the cover of a magazine in the supermarket. The painting is based on a photographic reproduction, as was much of the appropriation art of the 1980s. Colin Brant is not an appropriation artist. He, as is true the world over, has his sources, sources not always from life as understood by way of Impressionism. Any number of images to the contrary, he is not a plein-air painter. Although he may on rare occasion have gone out of his studio to paint, he is primarily studio-based. And no matter how his image appears to us, his subject is always and inevitably painting. And why did he paint Godzilla? That day on the checkout line, he had asked himself, “Can I make a painting of that?”
Most encountering Brant’s work initially would identify him as a landscape painter. He disagrees, not being contrarian, only to insist he’s after something else, something he himself finds hard to explain. He has said that his paintings aren’t “pictures of places,” even as they refer to locations he knows, where he’s from and is now, along with others he has never visited. You don’t have to go to a place to paint it. You go to a place in your mind. Maybe those paintings of where he’s never been are visitations. There can be a reversal of polarity: we don’t go to a place; the place comes to us. The place Brant goes to is painting. The fact of his difficulty to articulate his narrative, and this is neither reluctance nor evasion, is actually helpful in drawing a bead on what he does. Simply stated, what we his viewers see as landscapes is more his own navigating of the terrain, topography, and contours of painting, memory and images and how they intertwine, and how he is relating—and this includes those places he has inhabited—the appearance of the world as seen in his mind’s eye, the act of bringing an image into being. Even a cursory examination of his sources shows that he makes these pictures more alive, vibrant, magical, and at times disorientingly so. The psychedelic, cavernous subterranean room that is Freedley Quarry #2, 2022, for example, might also be described as a spelunker’s hall of funhouse mirrors. In this Brant has something in common with writers whose first duty is to bring a story to life. And what is the painter’s? For both, in relating an actual event or location, the imperative is to make it more interesting, to heighten the experience for readers and viewers. To this end they inevitably intertwine fact and fiction.
When Brant shows us places where we have never been, where he himself hasn’t, he is takes us there, to the painted world. It is itself a map, one that allows him, and us, to get pleasurably lost. This is an artist, painting nearly every day, who often makes multiple variations of an image. Painting, ideally, is recurrent, without final destination. Even as the act of picture-making may be thought of as elliptical, the artist and his followers are never moving from A to B and back again. There is always something else to discover. The realist painter Lois Dodd, now 96, has returned to the same few locations and subjects over and again for the past seven decades—moving between Maine and the Delaware Water Gap, looking out her East Village window—and continues to find engagement. Maybe her picture of a snowy winter day isn’t about the landscape. Maybe it’s about an aloneness, different from loneliness, certainly. Painting, of course, is a solitary activity. It can be a meditation, for artist and viewer alike. The surface of a painting is not dissimilar to a surface of water. There is a mirroring of sky and light from above, peripheral reflection, a wondering of what lies below. To make a painting and to look at a painting share a sense of wonder and curiosity. Consider Colin Brant’s Aquarium, 2023. Observed in proximity, an aquarium is a contained world we put our heads into. The same is true of a painting, or can be. Every painting, no matter the image, is an aquarium of sorts. With Plankton, 2022, Minerals, 2021, and Flower Stand, 2022, Brant arrays everything before us to examine, as he himself has done, and this also holds true for images not directly based on display.
In certain paintings Brant suggests the point-of-view as that of the viewer, an unseen figure in the scene. Grotto, 2023, clearly places the viewer in the painting: on the inside looking out, the cave’s high archway framing the landscape beyond, offering a quietly magical, mystical image. Similarly, Houda Beach, 2022, in Northern California near to where the artist was raised, is framed by nature. In the foreground, left and right, up to the canvas’s midpoint, there are outcrops of grass and rocks; on both sides and along the top, branches with slender feathery leaves ring the inlet and the sea beyond. The viewer stands there, as he was when the source photograph was taken. Despite the vertical format, he moves the eye around a continuous circular path by way of the flow of the marks and serpentine lines at all four sides. This amplifies the sweet spot of the central view, just as it would if we had hiked to the edge of the cliff overlooking the bay, rewarded by the sublime view. More than landscapes, these are images of experiences, including those of the painter in their making. Brant’s painting Moonstone, 2022, which is a beach close to Houda, a near nocturne, might have been painted by Munch in the departure of Northern light, or by Mondrian in his early, revelatory mystic period. Nature, Mondrian knew well, was a spiritual realm. For Brant, “being there” may also encompass distance, and distance foreshortened, as when he transforms his photograph of a diorama in the American Museum of Natural History into an otherworldly vision of an exotic jungle primeval: Congo Forest Diorama AMNH, 2022. With his highly enlivened image, we no longer stand before an enclosed world, a museum simulation, on Central Park West and 79th Street in New York. Looking at his source photo, we more fully see how he has turned a mundane image into something entirely fantastical. Museum dioramas are meant to convey faraway locations or distant points in time as true-to-life, or real. Brant’s imagining of it feels much more actual for its heightened vision. When presented with the grandeur and strangeness of nature, with the sublime, or ridiculously sublime, many of us respond with a single word to convey our impression: Unreal!
Brant has painted numerous fjord scenes, all stunning, although he has never seen one in-person. To look out over a magnificent fjord, this is one place where sublimity resides. More than that, he has an abiding interest in the very creation of the earth, in the planet’s more wondrous, sculptural formations. He knows that the greatest sculptor is nature itself, and often refers in cosmic, microcosmic terms to how life on earth came to be. His 2023 exhibition, Dirty Snowball, borrows its title from the theory proposing that “the building blocks of all life (as well as most of the water) came to earth in the form of giant balls of ice, rock, and dust (comets), that collided with our planet eons ago. In those early primordial swamps amino acids came together to build simple creatures, which turned into more complex creatures …” In the mountain paintings—appearing as clusters of geodes—Brant seems to want to show us what’s inside the stone, how it formed, layer upon layer. He has painted any number of scenes of Lake Louise, in Alberta’s Banff National Park, not only for its beauty and potential for painterly improvisation, but because it is a moraine lake. As such it refers, as fjords do, to glacial time and Earth’s last ice age. The lake’s waters, as rendered in Lake Louise, 2023, appear brilliantly turquoise due to particulate rock dust reflecting light from above. Even Brant’s leaving visible the canvas weave, and the feel of his pigment as at times granular, his color’s rubbed quality, all suggest sedimentary activity. In terms of chromatics, his greens may be described as derived from Chlorophyll, the natural compound in green plants, which gives them their coloration and enables them to absorb the sun’s energy through photosynthesis. From this they generate oxygen. It’s tempting to think of Brant’s work as engaging painting-synthesis, which in his process implicates photography. Far from being made obsolete by the invention of the medium, painting has since the 1820s pointed to the camera’s limitations, certainly of imagination. Of course today everyone takes pictures. Comparatively, very few can paint one.
People appear only infrequently in Brant’s paintings. While there are signs of built structures—a bridge, a house, a hotel—he may be suggesting a world unspoiled by human intervention, an idyllic environment, particularly as we inhabit a planet at greater risk, because of us, to cataclysm. When Brant does include a figure, he usually, by his own admission, hides them. In Mt Sir Donald, 2022, a figure is seated on a rock ledge at the canvas’s center baseline. The source was an old stereoscopic image (accounting for the left/right split that Brant has kept visible, except that it doesn’t bisect the sky), originally sepia, and in his painting greatly hued. The 19th century photographic technique, remarkable in its day, and still, approximates three-dimensional effect. In painting, however, Brant has no need to suggest the illusion of depth. Our depth perception for this image, a canvas measuring 34 by 45 inches (life-size), is a matter of painting’s fictive space, which we inhabit in the act of looking. Here, we grasp how art measures our proximity by degrees. The figure in this painting is small in relation to the vastness of nature and the universe, just as we are. Brant’s distance on the world and the world of images is not measurable in feet and inches. Distance allows him to make these paintings, and allows us to stay close to what he does. He animates and amplifies nature. “I’m not invested in a mountain, a landscape, Godzilla or fish tanks,” he has said, “but in the energies of the earth, glowing things, things that are real, primordial and alive.” He affirms over and again: “We see ourselves in the things we observe.”